Il gioco ‘sporco’ di Ibra
La «battaglia del grano» di Mino Raiola, come osserva acutamente Fabio Monti sul Corriere della Sera, sposa la scelta di Ibrahimovic di chiudere al più presto la sua esperienza italiana per giocare in Spagna. Il Barcellona accoglierebbe Ibra a braccia aperte, ma senza firmare assegni da 70 milioni di euro. Così lo svedese sta spingendo per una rottura traumatica con l’Inter, anche se il giochino ormai è più goffo che sporco. Ibra spera che, a suon di complimenti al Barcellona, Moratti s’incazzi e lo liberi a cifre ragionevoli. A non aver ancora capito la strategia dello svedese è rimasto ormai qualche allocco, che vorrebbe che l’Inter cacciasse Ibra a calci in culo. Ibra si spedisce solo a fronte di un’offerta irrinunciabile. In tal caso è un dovere. Ma guai a imprigionare Moratti in certi corridoi, perché in questi casi il presidente diventa più duro del granito e decide proprio nella direzione opposta. In effetti, se l’Inter agisse d’istinto finirebbe per fare il gioco di Ibra e invece questa è una partita da giocare con calma e con astuzia, forti di un contratto in vigore fino al 2013. Moratti per cedere Ibra vuole 70 milioni di euro in contanti, trattabili solo se il Barcellona proponesse come contropartita tecnica Samuel Eto’o, pure lui classe ’81, che ha appena chiuso la Liga segnando 30 gol in 35 partite e ha già vinto tre campionati in Spagna e due Champions League. Insomma, palmarès alla mano, non è poi escluso che l’affare non lo faccia l’Inter. Ibra può ovviamente perseverare nei suoi capricci da bizzosa rock-star, ma deve stare attento a non esagerare, perché deve mantenere alto il suo valore di mercato, prima ancora che sognare il Pallone d’Oro! Si può pure immaginare lo scenario apocalittico di uno spogliatoio interista spaccato dallo svedese, ma Mourinho non è certo un tipo morbido in questo genere di situazioni. Concludo suonando la sveglia per chi si ostina a credere che il calcio sia ancora questione di sentimenti proprio nel momento in cui la telenovela Kakà sta avviandosi alla sua naturale conclusione. In realtà i mercanti sono entrati nel tempio già da un pezzo, altro che calcio delle bandiere. Agli inguaribili sognatori è rimasto solo il vecchio Subbuteo
Caro Gian Luca,
sono un tifoso del Milan ormai datato che sta vivendo un momento di crisi di identità di ruolo. Non riesco infatti
a capire come mai il 99,9% (percentuale di moda) dei media definisce ‘tifosi’ nullafacenti e disfacenti che decidono se i loro beniamini onorino o meno la maglia, se debbano andare a lavorare altrove, se i presidenti debbano
vendere le loro società di calcio, oltre a giudicare chi è degno o no.
Forse è per questo che gli appassionati di calcio normali come me diventano improvvisamente distaccati, nel senso che non insultano, non minacciano e guardano le partite con
amici magari simpatizzanti della squadra antagonista e perfino applaudono gli avversari.
Poco tempo fa ho visto dal vivo le semifinali e una finale per lo scudetto 2009 di volley femminile: non un insulto, non una provocazione, ma solo rispetto e passione sincera. Credi anche tu che sia una questione cerebrale, nel senso che esistono ancora sport per gente normale? Scusa l’ironia e la polemica ma in quest’Italia ormai senza regole ci si chiede perché siano sempre gli eccessi e le prevaricazioni a far notizia. Chiamare tifosi questi esseri è un’offesa ai veri appassionati. Eppure nulla cambia e tu sei tra i pochissimi che hanno il coraggio di dire la verità.
Tra qualche anno il calcio sarà uno sport di seconda fascia, con buona pace di tutti, soprattutto dei pavidi addetti ai lavori! Grazie per l’immagine pulita che sai dare del calcio e per il tuo equilibrio di cronista ed opinionista. In bocca al lupo per il tuo lavoro e la tua Inter!
Caro amico di Ghemme, paesino che ricordo sempre volentieri come tappa verso Carcoforo, dove papà mio ha una casetta, grazie per questa bella mail che mi consente di illustrare ancora una volta il mio rapporto col calcio. Le percentuali ci sono da sempre, ma è bastato che le citasse Mourinho ed ecco che le citiamo tutti per qualsiasi ragione: è l’ennesima prova della forza del personaggio che se anche parlasse del tempo farebbe tendenza. Al di là di questo, devo stare attento a risponderti, perché rischio di partire col mio solito pistolotto sul calcio, specchio deformante e deformato della vita di tutti i giorni. Questo sport per me è un mestiere prima che una passione. Chi già mi conosce bene, può pure evitare di leggere quanto segue, perché da qualche parte su questo sito sa già come la penso. Non mi è mai piaciuto il termine ‘tifoso': il tifo è anche una malattia consultabile in qualsiasi enciclopedia medica. Preferisco, condizionato dai troppi viaggi oltreoceano il termine anglosassone ‘supporter’ oppure ‘fan': mi pare più adeguato e ogni volta mi meraviglio che in Italia esista gente che vive esclusivamente in funzione della propria squadra di calcio. Se l’Inter vince dieci scudetti di fila o li perde all’ultima giornata la mia vita non cambia. Continuo a lavorare, a viaggiare, ridere, mangiare, dormire. Non ho mai litigato con nessuno per l’Inter, non ho mai pianto per una sconfitta, non ho mai avuto idoli tra i calciatori, forse perché li ho conosciuti meglio di tanti altri, e i modelli a cui ispirarmi li ho sempre trovati in famiglia. Non modulo la mia esistenza secondo i ritmi della squadra del cuore e non lavorerei per l’Inter o per una squadra di calcio nemmeno mi dessero 10.000 euro al mese. Riconosco i meriti degli avversari quando vincono e affronto il calcio con ironia, prediligendo sfottò e detestando qualsaisi forma di violenza. Vengo da famiglia tiepidamente milanista e anche per questo non vivo la rivalità calcistica come una guerra di religione: il calciatore che mi sono piaicuti di più sono Rivera e Cruyff e non sono nemmeno interisti. Al tifo antepongo il giornalismo: amo più le news dello sport e mi piacerebbe prima o poi tornare ad occuparmene a tempo pieno, come ho fatto in passato per un anno e mezzo parallelamente al calcio. Tieniti forte: per il sottoscritto una delle giornate giornalisticamente più interessanti resta il 5 maggio 2002, quando l’Inter ha perso la scudetto all’ultima giornata. A Roma guardavo gente che voleva suicidarsi con immenso stupore. credo ci sia di peggio nella vita. Io invece ho lavorato sodo realizzando alcune tra le interviste più interessanti da quando faccio questo mestiere. Dopo il 5 maggio fui l’unico giornalista a rintracciare telefonicamente a casa sua a Bratislava il povero Gresko, costretto a scappare come un ladro. Gli feci un’intervista pubblicata su Tuttosport che conservo gelosamente. E’ vero che il pubblico del calcio è mediamente assai meno colto di quello dei cosiddetti sport di nicchia, come il pubblico dei tanti Grandi Fratelli non è esattamente quello di Porta a Porta o di Matrix, ma io lavoro in una Tv commerciale e so bene che l’audience non lo fa certo il pubblico di History Channel, che è tra i miei canali preferiti. Se una Tv commerciale non fa audience chiude nel giro di un mese: questa è la cruda verità. La tv ha smesso di fare cultura da decenni e si limita ad essere la cassa di risonanza del comune sentire, altro che Tv intelligente, come suggerisce qualche trombone. Guardassero gli introiti pubblicitari e i costi di una qualsiasi diretta prima di fiatare. Il mio sito nasce nel 2004, dopo tre anni di gestazione, per puro piacere personale e non certo per l’Inter. Altrimenti non l’avrei chiamato col mio nome. In questo sito ci infilo tutto quello che mi passa per la testa, dalle foto dei miei viaggi alla scoperta del globo, prima mission della mia vita, o con personaggi che trovo simpatici (in GLR Photo), alle cazzate che mi fanno ridere, comprese vignette irriverenti anche per l’Inter (in L’isola che non c’è o in Non è da Inter Bar), dagli articoli scritti (in Parole di carta) ai video più divertenti di trasmissione o di vita mia, compreso il bungee-jumping che adoro (in GLR Film). Tutto qui dentro, foto, video, scritti che altrimenti avrei già smarrito. Non cerco il consenso di quei tifosi che si sgozzerebbero per una partita di calcio e propongo sempre e solo le mie idee, che non hanno la pretesa di essere universali. Qualche giorno fa ho detto in Tv che spero proprio che il Milan non diventi arabo e subito un povero ignorante con il battesimo come titolo di studio ha pensato che lo dicessi per paura di un Milan finalmente competitivo. Non pensavo a questo, ma a ragioni un po’ più alte e nel caso dell’Inter direi la stessa cosa. Da milanese ritengo che le famiglie Berlusconi e Moratti siano l’emblema di una città che si sforza di essere metropoli dal respiro europeo e preferirei che il Milan vincesse con Berlusconi. So che gli eredi del Premier non amano il Milan, ma ho solo detto quel che mi piacerebbe. E allora mi hanno dato del razzista, perché nel nostro paesello se difendi le tue tradizioni, se t’incazzi con chi vorrebbe rimuovere i crocifissi dalle aule delle scuole o le croci dai cimiteri perché offendono i musulmani diventi automaticamente razzista. Ne ho visitati di Paesi musulmani, dalla Libia agli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto alla Giordania e so bene che non tutti gli arabi ripudiano la civiltà occidentale, eppure spunta sempre qualche saputello, mai stato nei paesi arabi, a darmi lezioni di vita. Mettici poi il mio filo-americanismo dichiarato e la frittata è fatta. Insomma mi sono dilungato anche troppo, ma per spiegarti che sono come te e che non vivo certo il calcio come la mia unica ragione di vita. Purtroppo la maggioranza silenziosa non fa mai audience e in questo Paese pare vincere chi alza la voce. Sappi però che, avendo una buona dosa di ironia, mi diverto ancora. Il giorno che non dovessi divertirmi più, cambierò mestiere. Sogno anchio che il nostro calcio torni ad essere soprattutto divertimento, ma certi sogni muoino ancora prima dell’alba. Lo sapevo che avrei fatto il pistolotto, ma certe volte proprio non resisto.
GLR
Ciao Gian Luca, è la prima volta che ti scrivo. Facevo una riflessione su quello che sta succedendo in questi giorni, a proposito di Kakà. Per come vivo io il calcio, credo che sia giusto, e lo dico con amarezza, che certi campioni vadano via dal nostro campionato. Non meritiamo per carenza strutturale, culturale e sportiva, che certi campioni rimangano nel nostro paese. Siamo stati ai vertici ma non abbiamo saputo guardare a lungo termine e oggi siamo costretti a frequentare stadi obsoleti, chiusi da recinti per colpa della nostra ignoranza, salvo poi vedere quelli stessi impianti, come Roma per la finale di Champions, senza barriere perché riempiti da gente con più cultura sportiva e forse più passione rispetto alla nostra. Stiamo toccando il fondo e non solo dal punto di vista tecnico. La cessione di Kakà non è solo una questione sportiva, ma abbraccia problemi più ampi, e se non li risolviamo, rischiamo di veder morire la serie A. Spero che il caso Kakà serva per ripartire. Sono figlio di un calcio romantico forse scomparso, ma al quale voglio ancora bene. Spero che i vertici gliene vogliano altrettanto.
Con stima, Ernesto