Cordoba, lo ‘speedy gonzales’ nerazzurro
Pubblicato su Eurocalcio – marzo 2001
Ritratto di Ivan Ramiro Cordoba, il colombiano dell’Inter. Si confida uno dei difensori più veloci del mondo, tra i pochissimi punti fermi dell’Inter di domani. Ivan Ramiro Cordoba, ovvero l’unica garanzia per la difesa nerazzurra di domani. Lo sostengono i tifosi nerazzurri più apprensivi, pensando alle prossime 36 primavere di Laurent Blanc e alla permeabilità cronica degli altri compagni di reparto. Se poi sarà così è difficile dirlo perché il calcio, nei suoi effetti, può essere molto più rapido dello stesso Cordoba. Una cosa è certa: Ivan Cordoba è uno dei pochissimi calciatori che, in un anno e mezzo di Inter, nessuno ha mai messo in discussione, e non è poco, in una squadra i cui componenti riescono spesso a bruciarsi nello spazio di una manciata di mesi. La sua faccia da ‘cattivo’ sembra uscita da un film d’azione made in USA, quelli del genere Van Damme o Schwarzenegger prima maniera e, che sia un ‘duro’ in campo non c’è dubbio. Cordoba corre di qua e di là, con la rapidità di Speedy Gonzales, a chiudere buchi o voragini, mordendo caviglie e azzannando palloni. Ma, smessi i panni del calciatore, sprofondato su una poltrona ad Appiano Gentile o su un sedile d’aereo per una delle tante trasferte, Ivan sa trasformarsi, tornando ad essere quello che è, cioè un ragazzo serio e gentile, sempre disponibile per una chiacchierata a cuore aperto. Se ti capita d’incontrarlo, stai sicuro che è sempre lui a salutarti per primo, con un sorriso timido e sincero, segno di un’educazione che non appartiene a tanti altri suoi colleghi, forti nei conti in banca ma alquanto deboli nelle buone maniere. “Mi fa piacere tutto quello che di buono sto sentendo sul mio conto – attacca – ma non voglio pensarci troppo. Ho ancora troppo da imparare da tutti per montarmi la testa. Certo, se penso a come e a dove ho cominciato, posso dire di aver già fatto un bel pezzo di strada”. Inizi sofferti?
“Beh, non è che in famiglia navigassimo nell’oro. La mia storia è molto simile a quella di tanti altri calciatori colombiani. Mio papà Ivan Ramiro e mia mamma Marta Sepulveda hanno fatto tanti sacrifici per me: tre figli, oltre a me un fratello maggiore che gioca a pallavolo per divertirsi e una sorella di 17 anni che studia all’ università. Non è mai facile tirar su tre figli, con un occhio, diciamo così, al bilancio”. E il calcio?
“Il calcio mi ha preso al volo, a nove anni. Le prime esperienze, subito come difensore, nel Rio Negro, il club di una piccola città vicino a Medellin: ho fatto tutta la trafila delle giovanili fino alla prima squadra, in serie B. La vera fortuna è stata lavorare fino ai sedici anni con lo stesso allenatore, Josè Humberto Etcheverry: è lui che mi ha insegnato tutto, la cultura del lavoro sul campo, e soprattutto la velocità, perché oggi il calcio è diventato molto più veloce, ed un buon difensore dev’ essere, prima di tutto, molto rapido. Poi, nel ’96, sono passato al National Medellin e un anno più tardi sono stato convocato in nazionale. Nel ‘98 la prima grande occasione, quella di lasciare il mio paese per andare in una terra di grandi calciatori, l’Argentina: un anno e mezzo al San Lorenzo, una parentesi che è stata fondamentale per la mia maturazione, come uomo e come calciatore”. E l’Inter?
“L’Inter è arrivata quasi subito. Narciso Pezzotti, il vice di Lippi, mi seguiva già dall’inizio del ’99. E’ venuto a vedermi due volte, prima ad aprile e poi a novembre, quando si è aperta subito la trattativa. L’Inter mi ha voluto subito e mi ha strappato al Real Madrid: hanno fatto tutte le mosse giuste per chiudere una trattativa che ha avuto subito il mio assenso”. Chi è stato il tuo idolo da bambino?
“Non è stato un campionissimo, come si potrebbe pensare, ma un grande giocatore che purtroppo ha fatto una fine tremenda: Andrès Escobar, il difensore della nazionale che è stato assassinato in circostanze misteriose, dopo i mondiali di USA ’94. Andrès aveva solo 24 anni ed era un difensore moderno, con grande tecnica e personalità, alla Blanc. Non mi perdevo una sua partita, allo stadio o in TV. Il suo assassinio è stato uno choc per me. Anche in quel caso si è parlato male del mio paese, che purtroppo ha una brutta immagine nel mondo, tra narcotraffico e guerriglia. Da anni le autorità si stanno impegnando al massimo per cambiare le cose e per garantire una vera pace sociale”.
E anche il calcio deve fare la sua parte: a proposito come vanno le cose?
“Miglioriamo a vista d’occhio. Tutti ricordano la Colombia di ieri, quella dei grandi Higuita, Valderrama, Rincon, i ragazzi di Maturana: gente che giocava benissimo, grandi doti tecniche, e tanta voglia di divertirsi… ”
Già, peccato che spesso erano gli avversari a divertirsi, come Roger Milla in un Colombia-Camerun di Italia ’90, quando soffiò il pallone a Renè Higuita che si era avventurato a fare in fenomeno in dribbling fuori area, e andò a far gol tutto solo. La Colombia pagò con l’eliminazione da Italia ‘90 quella leggerezza.
“Si, l’ho visto in Tv. Quella in effetti era una generazione che cercava molto lo spettacolo e il divertimento della gente, ma era poco concreta: ha perso un sacco di partite e di occasioni. Oggi il calcio colombiano è più pratico, bada al sodo, si è fatto più tattico, sul modello dei campionati europei. Adesso cerchiamo di fare gol, ma anche di non prenderli: oltre a buoni centrocampisti e attaccanti, stanno crescendo tanti buoni difensori”.
Come te e Mario Yepes. Che mi dici di lui?
“Che è bravissimo. Un ottimo ragazzo, tranquillo, senza grilli per la testa e con una grande voglia di arrivare. Ci conosciamo bene, perché abbiamo giocato insieme nel Rio Negro, e poi siamo stati compagni anche in nazionale, dove lui inizialmente era la mia prima riserva. Lo cercano molte squadre, anche in Italia. Mario ha grandi mezzi fisici ed è un mancino bravissimo nell’anticipo e, grazie alla statura, fortissimo nel gioco aereo. Nel River Plate gioca a sinistra della linea a tre difensiva. Se verrà in Italia, farà benissimo: vedrete!”
Oltre a Yepes, altri colombiani pronti per il nostro campionato?
“Direi tutti quelli che sono nel giro della nazionale. In particolare segnalo Mayer Candelo, una mezzapunta. Lui ha 23 anni, ma è già stato seguito dal Parma, come capitò a Jorge Bolano, centrocampista centrale, e a Johnnier Montano, fantasista appena 18enne: questi ultimi due poi sono finiti proprio a Parma, segno che questa società è molto attenta ai talenti del mio Paese. Poi c’è un’attaccante che si chiama Jairo Castillo, anche lui del ‘77. Entrambi giocano in Argentina, nel Velez Sarsfield e, a mio giudizio, sentiremo parlare di loro. In più , dovessero arrivare in Italia, hanno un vantaggio: quello di giocare in Argentina, un paese che è l’ideale ‘anticamera’ del calcio italiano. Parlo per esperienza perché per me è stata la stessa cosa: sono riuscito a ambientarmi abbastanza in fretta in Italia proprio perché prima ero stato in Argentina. Vale il discorso fatto per Mario Yepes”.
Già, infatti molti sudamericani rischiano di non ambientarsi subito in Italia e di farsi prendere dalla nostalgia: a te non è mai successo?
“Per la verità ogni tanto ci penso, ma, ripeto, è stato fondamentale il passaggio in Argentina, oltre al fatto di avere sempre avuto vicino mia moglie, Maria Isabel, che non mi ha mollato un attimo. Maria mi ha seguito in Argentina, e poi in Italia, dove siamo arrivati a Natale ’99. Faceva un freddo terribile qui a Milano e in più lei era incinta. I primi tempi è stata durissima. Poi è nata nostra figlia, Maria Paloma, e tutto è diventato più facile, per me e per lei”.
C’è chi dice che manca poco perché tu possa diventare tra i più bravi difensori del mondo. Cosa ti manca?
“Mi mancano ancora tante cose, purtroppo. Per accorgermene, mi basta guardare come gioca Laurent Blanc. Devo imparare tantissimo da lui: la sua esperienza, ma soprattutto la sua tecnica. Poi, ultimamente le cose all’ Inter non vanno bene e facciamo tutti più fatica, perché manca tranquillità. Ci siamo messi nei guai e tocca a noi uscirne. Tornando a me, so che con la palla tra i piedi devo ancora migliorare tantissimo. La cosa più importante è essere umili e cercare di imparare dai più ; bravi: infatti guardo con attenzione tutti, da Nesta a Thuram, per cercare di capire come si muovono in ogni situazione. Tutti mi dicono che tra le qualità di un bravo difensore ci deve essere la velocità e che io sono molto veloce, ma la velocità, da sola, non basta. Altrimenti avrei fatto atletica”.