Jugo, il professionista dell’Est
Pubblicato su Eurocalcio – maggio 2001
Si definisce un professionista, punto e basta. Vladimir Jugovic racconta una carriera ricca di scudetti e Coppe. La storica Stella Rossa e il complicato rapporto da ex-juventino con i tifosi interisti. Vladimir Jugovic è un professionista nel vero senso della parola. Prende molto sul serio il suo mestiere, in campo e fuori, e se ti dà un appuntamento per un’intervista, ti conviene essere puntuale, perché lui arriva sempre cinque, dieci minuti prima dell’orario stabilito. E quando parla, non parla mai a vanvera, ma dice sempre cose interessanti, esponendo il suo pensiero con molta calma, stando bene attento a pesare parole e concetti. In più quei capelli grigi che si porta dietro da anni, sembrano renderlo ancora più maturo e saggio dei 32 anni ancora da compiere. E, anche di questi tempi, Vlado si dimostra professionista fino in fondo: sa bene che la sua avventura nerazzurra, per tanti motivi, è quasi sicuramente destinata a chiudersi al termine di questa stagione. Sa anche che, tra lui e i tifosi interisti, non è stato amore a prima vista, e per la verità nemmeno alla seconda o alla terza. Una mancanza di feeling che ha toccato anche Marcello Lippi, tecnico la cui stima è ricambiata, e che è stata un cruccio per tutti gli ex-juventini capitati in nerazzurro, a parte Giovanni Trapattoni. Chi capisce di calcio però dice che il calciatore Jugovic, quando è in condizione, è ancora oggi uno tra i pochi centrocampisti centrali in grado di fare tutto. Bravo nell’interdizione e nella costruzione e soprattutto bravo a dare profondità con le sue verticalizzazioni a tutta la squadra. Non a caso ha giocato a lungo nel nostro campionato, il più difficile del mondo: tre anni a Genova con la Sampdoria, poi le due migliori stagioni juventine a metà degli anni ’90 in cui ha riconquistato con Lippi tutto quello che aveva già vinto a Belgrado con la Stella Rossa dove aveva cominciato, quindi una stagione alla Lazio e infine due anni all’Inter, dopo la sfortunata parentesi spagnola all’Atletico Madrid. E’ un calciatore per intenditori, che piace a quasi tutti i tecnici, anzi piace molto di più ai tecnici che ai tifosi. Fa parte di quella razza di centrocampisti che si notano soprattutto quando non ci sono, perché è la squadra a sentirne la mancanza in mezzo al campo. Da grande professionista, ‘Jugo’ sa che in un’intervista ci sono spesso domande antipatiche e allora tanto vale giocare subito d’anticipo: “So di non essere riuscito a dare all’Inter quello che avrei voluto. – attacca – Quando hai problemi fisici si fa dura! L’anno scorso ho giocato partite che per me sono state un’autentica sofferenza, a volte non riuscivo nemmeno a scattare. Ero fermo in mezzo al campo, ma ho cercato di non tirarmi mai indietro perché, se la squadra ha bisogno, un buon professionista deve provarci sempre. L’infortunio in Spagna, all’Atletico Madrid, è stato bruttissimo. Uno strappo in due punti diversi nel muscolo della gamba sinistra: un dolore terribile e una sofferenza che non auguro a nessuno. Un infortunio con tempi di recupero lunghissimi. Dopo uno strappo, hai sempre la sensazione che la tua gamba non sia mai a posto. Guarda Christian Vieri: lui ha avuto un brutto infortunio ed è passato un mucchio di tempo prima che tornasse a giocare alla grande. Il mio guaio, a detta dei medici, è stato ancora peggiore: ne è passato di tempo prima di sentirmi di nuovo bene”. E, finalmente, sono arrivate ottime partite: quali sono quelle che da nerazzurro ti piace ricordare? “Penso di aver giocato molto bene nello spareggio di Verona per la Champions League contro il Parma, l’ultima partita della stagione scorsa. Poi quest’anno le cose migliori le ho fatte a Bologna, al di là del gol, a Lecce, e nel derby in casa del Milan a gennaio. Credo poi di aver giocato bene anche in altre occasioni, soprattutto in trasferta, ma questa forse è solo una coincidenza o una mia idea”. Quando tu dici una cosa c’è sempre una ragione: cosa vuol dire quest’ultima frase? “Niente di particolare. Riflettevo solo su un discorso che ho fatto con qualche mio compagno di squadra, soprattutto con i più giovani”. La solita sindrome di San Siro? La paura dei fischi e tutto il resto? Tu però sei uno che ha vinto scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali, mica un ragazzino all’esordio. “Infatti a me San Siro non fa paura e non mette ansia, ci mancherebbe. Però visto che insisti, cerco di spiegare quello che volevo dire, perché non vorrei mai essere frainteso. Per me un calciatore è prima di tutto un professionista e deve fare al meglio il proprio mestiere, che ogni tanto prevede anche fischi o contestazioni, quindi il discorso che sto per fare non è un lamento e non vuole offendere nessuno. Riflettevo però sul fatto che, tra le gare in cui mi sono piaciuto particolarmente, ho citato, oltre al derby che fa storia a sé, partite giocate in trasferta. Quando gioco a San Siro, a volte, ho una sensazione strana”. E sarebbe? “La mia sensazione, ma spero di sbagliarmi, è che a volte ci sia una sorta di linea immaginaria che divide il pubblico e la squadra. Mi spiego meglio: a volte si comincia a giocare a San Siro, magari contro una provinciale, che sai già che si chiuderà e ti farà faticare, e una buona parte del pubblico sembra avere già in mente la sua squadra ideale, che è fatta di superuomini, e la sua partita ideale, che dovrebbe finire almeno 4-0 per noi. Purtroppo poi la squadra e soprattutto la partita reale è sempre diversa da quella che alcuni si sono immaginati prima che cominciasse. Così, dopo una ventina di minuti, se non sei già in vantaggio 2-0, comincia uno strano brusio generale. Poi, se la situazione non si sbocca, arrivano i fischi, magari anche a Vieri che, se vai a vedere, ultimamente sta segnando a raffica. Si gioca sempre per vincere, ma in casa a volte si gioca più contratti. Spero di essere stato chiaro e che nessuno mi fraintenda: io non mancherò ; mai di rispetto al pubblico che può comportarsi come meglio crede, ma mi resta la strana sensazione che ogni tanto ci sia una barriera tra i tifosi e i giocatori dell’Inter. Sarà perché non si vince da molto tempo e magari sarebbe così ovunque, però…” Chi viene dalla Juve fatica a conquistare i tifosi interisti: Lippi insegna. “Questo e vero, ma fa parte del gioco e lo accetto. Il bello è che io non arrivavo direttamente da Torino, ma dopo la Juve e prima dell’Inter avevo giocato con la Lazio e con l’Atletico Madrid. Però qui mi hanno sempre visto solo come bianconero. Mi hanno raccontato che un giorno ad Appiano Gentile, l’anno scorso, hanno messo una scritta: ‘Via gli juventini dall’Inter!’. Facile immaginare a chi fosse dedicata: a me, a Marcello Lippi, Vieri e Paulo Sousa. Meno male che io non l’ho vista perché ci sarei rimasto male. Questo fatto dell’ex-juventino che non potrà mai avere un’anima interista mi ferisce, ma ho sempre cercato di non farmi condizionare. Molti si ricordano di me solo per quel rigore decisivo segnato all’Ajax nel maggio ’96 a Roma, quando la Juve ha vinto la Coppa dei Campioni, ma per me era la seconda volta. Poi con la Juventus ho vinto anche un’altra Coppa Intercontinentale, dopo quella con la Stella Rossa, ma il passato è passato, da due anni per me c’ è solo l’Inter. Sono un professionista e ho giocato per la Juve finché sono stato alla Juve, oggi sono dell’Inter e lotto e tifo per l’Inter. Finché resterò qui, tanto o poco che sia, mi sento interista: tutto il resto non conta!” Tu hai cominciato in una squadra che resterà per sempre nella storia del calcio: la Stella Rossa di Belgrado che nel 1991 fu la prima squadra dell’ ;Est a vincere la Coppa dei Campioni. Cosa ricordi? “Tutto, e con orgoglio. Perché quello che abbiamo fatto noi non l‘aveva mai fatto nessuno. Ero giovanissimo e sono passato direttamente dalla primavera alla prima squadra della Stella Rossa. Ho giocato tutte le partite di campionato e di Coppa dei Campioni e vincevamo quasi sempre. Era una squadra fortissima con campioni come Savicevic, Mihajlovic, Belodedic, Prosinecki, Pancev. Molti di loro hanno poi fatto fortuna nelle migliori squadre europee. Il ricordo più bello per me rimane però l’ Intercontinentale a Tokio l’8 dicembre ’91: battemmo 3-0 il Colo Colo e segnai due gol. Il secondo tempo lo giocammo in dieci per l’espulsione di Savicevic, ma quel giorno eravamo imbattibili”. E adesso gli eredi come vanno? “Il calcio jugoslavo è ancora su buoni livelli, i campioni non mancano mai: ci sono Milosevic, Kovacevic, e tanti buoni giovani. I migliori, secondo me, sono Dejan Stankovic, che conosciamo tutti, e Mateja Kezman, attaccante che gioca con il Psv Eindhoven in Olanda: lui è uno ‘ giusto’, e poi ha grandi margini di miglioramento. La nazionale è in buone mani, e poi ci sono i vecchietti come Mihajlovic e come me che sono sempre pronti a dare una mano. Io, per la verità, avevo detto al nuovo commissario tecnico Milovan Djoric, appena arrivato a fine febbraio, che, se credeva, ero pronto a farmi da parte per lasciar spazio ai giovani, ma credo che continuerà a chiamarmi. Meglio così!” So che non ami parlare di politica, ma so anche che all’Inter dividi la camera con Dario Simic, che è croato: ne vuoi parlare? “E’ vero, non amo parlare di politica perché faccio un altro mestiere. Spero solo che dopo tante sofferenze il mio paese abbia finalmente svoltato, per intraprendere una strada nuova, democratica, e che possa crescere senza più casini. Io mi considero prima di tutto uno sportivo e nello sport la politica non dovrebbe mai entrare. Dario ed io veniamo da paesi diversi e divisi, ma siamo compagni di squadra, ci stimiamo e ci rispettiamo: parliamo di tutto e anche in politica ci siamo sempre capiti e rispettati. Ognuno è giusto che abbia le sue idee, ma deve rispettare quelle dell’altro, anche se sono diverse. Simic e Jugovic sono prima di tutto due calciatori dell’Inter, due professionisti, fieri delle proprie origini e consapevoli che in questa terribile e interminabile vicenda le colpe non stanno mai tutte da una sola parte. Ma noi siamo gente di calcio, facciamo sport non politica”. Ti sei mai sentito discriminato per la distinzione tra comunitari ed extracomunitari? “Direi di no! Poi adesso ho sposato una ragazza austriaca e quindi ho un trattamento comunitario. Potrei dire che non trovo giusta questa distinzione, lo dicono tutti, ma sinceramente non mi ha mai condizionato, forse perché ; sono abituato a certe cose. Pensa che fino a qualche tempo fa in Jugoslavia c’era una legge per la quale i nostri atleti fino ai 28 anni non potevano andare all’estero, poi tutto è cambiato. Insomma sono cresciuto con certe regole e, anche se non le condivido, le rispetto, perché, scusami se lo ripeto, sono un professionista!