Unico superstite: Javier Zanetti
Pubblicato su Eurocalcio – gennaio 2001
Il capitano dell’Inter è l’unico sopravvissuto alle poderose campagne acquisti del presidente Moratti, che in cinque anni ha portato in maglia nerazzurra oltre 80 giocatori. Ora spiega perché è rimasto e perché ha ancora voglia di vincere con l’Inter, mentre sogna di riportare l’Argentina ai fasti di Maradona.
All’Inter è arrivato in punta di piedi nel giugno 1995 e non era solo. Primo acquisto del primo calciomercato dell’Inter di Moratti, subentrato da quattro mesi ad Ernesto Pellegrini nella presidenza, Javier Zanetti è l’unico degli oltre 80 giocatori acquistati a non aver ancora cambiato maglia. Allora però, Javier Zanetti non arrivò solo, perché sul volo Buenos Aires-Milano c’era un altro argentino, Sebastian Rambert, una delle tante meteore del nostro calcio, capace di bruciare talenti, veri e presunti, con incredibile voracità. La storia vuole che a segnalare Rambert e Zanetti a Moratti sia stato Antonio Valentin Angelillo, anche lui argentino, già capocannoniere-record della storia interista ed ex angelo dalla faccia sporca. Il duo, costato complessivamente una decina di miliardi, fu presentato la piovosa mattina del 5 giugno ’95 presso la prestigiosa Terrazza Martini, ad uno sguardo dal Duomo. A dir la verità, li si conosceva poco e, al primo impatto, forse per la naturale timidezza, sembrò Zanetti il comprimario, perché le maggiori attenzioni di stampa e tifosi toccarono allora a Rambert, attaccante che in Argentina si era guadagnato il soprannome di ‘Avioncito’, cioè aeroplanino, per il gesto, poi reso mitico da Ronaldo, di festeggiare i gol allargando le braccia come fossero ali d’aereo. Zanetti invece si portava un soprannome che non infiammava nessuno: lo chiamavano e lo chiamano ancor oggi, gli amici più stretti, ‘Pupi’. “Un nomignolo – ricorda Javier – che mi ha messo l’ ;allenatore del Talleres Oscar Lopez Cavallero, scelto per distinguermi dai tanti Javier che giocavano lì”. Sta di fatto che le strade dei due si separarono subito dopo le prime partite ufficiali, perché, mentre ‘Pupi’ sgroppava con autorità sulla fascia destra, ‘ Avioncito’, dopo sole quattro presenze ufficiali, dall’inquietante Inter-Lugano 0-1 di Coppa Uefa al dimenticato Fiorenzuola-Inter 1-2 di Coppa Italia, se ne tornò a casa senza mai aver provato la gioia del gol: da noi, infatti, l’aeroplanino lo ha fatto solo il giorno della presentazione, per le immagini di repertorio delle varie tv. E per gli amanti della rubrica ‘che fine hanno fatto?’ val la pena di ricordare che Sebastian Rambert è poi tornato a giocare in Argentina, dove vivacchia ancor oggi da normalissimo professionista, senza infamia e senza lode, nel River Plate.
Insomma il campione eri tu, non certo Rambert.
“Io ci speravo, ma forse sono stato solo più fortunato – attacca con l’esagerata modestia di sempre – Sebastian è comunque un buon giocatore, che non è riuscito a sfondare nell’Inter anche perché era reduce da un brutto infortunio al ginocchio. E in ogni caso giocare in Argentina non è mica una brutta cosa. Io sono partito subito forte e l’Inter penso di essermela guadagnata: mi ha sempre motivato moltissimo l’idea di giocare nel campionato più difficile del mondo”.
Il calcio argentino sta vivendo un grande momento, con il Boca Juniors campione del mondo.
“La Coppa Intercontinentale vinta dal Boca è un grande successo per noi argentini ma, si sa, il calcio più affascinante resta quello europeo, con la Liga spagnola e la Serie A in testa. Giocare in Europa è una cosa di enorme prestigio per tutti i calciatori stranieri, e noi argentini non facciamo differenza. Probabilmente senza Spagna e Italia, il grande Diego non sarebbe diventato Maradona”.
Il premio FIFA al calciatore del secolo l’avresti dato a lui?
“Assolutamente si, ma io non faccio testo. Maradona è stato il mio idolo. Per tutti i calciatori argentini da vent’anni a questa parte, il mito è Diego. Pelè purtroppo non l’ho visto se non in qualche filmato e, quindi, non posso giudicare con certezza. Una cosa però posso dirla e, naturalmente, è a favore di Maradona: lui si è confrontato con il calcio europeo, in Spagna e in Italia; a Pelè ;, invece, questa esperienza è sempre mancata. A livello di nazionale Pelè ha vinto di più ma mi dicono di nazionali brasiliane da leggenda. Dieguito, a dir la verità, ha stravinto un Mondiale in Messico con una squadra non eccezionale e ne ha perso un altro per un soffio, qui in Italia, quattro anni dopo. Ero bambino, ma queste cose me le ricordo bene. Non vorrei invece entrare nel merito di altre faccende che hanno interessato Maradona: tanti dicono che l’uomo Maradona non è stato al livello del campione, ma io giudico solo il campione, giudicare l’uomo non tocca a me. E come calciatore Diego è stato il più grande in assoluto. A chi ha dei dubbi, suggerisco di riguardare la videocassetta del gol all’ Inghilterra. In quel gol, con lui che saltava gli inglesi come birilli, c’ è tutto il calcio!”
In Argentina s’intravedono potenziali Maradona?
“No, lui è stato unico e unico resterà. Un talento del genere credo che non lo vedremo tanto presto, e non solo in Argentina. Però dalle mie parti ci sono sempre bravissimi calciatori, e squadre di grande livello: il Boca, per esempio, oltre all’Intercontinentale, ha vinto la Coppa Libertadores e attualmente detta legge a tutti gli altri clubs. Io però resto tifoso dell’Independiente. Poi, stiamo crescendo anche a livello di nazionale, e sono sicuro che ai prossimi mondiali la ‘ selecciòn’ sarà tra le candidate al titolo. Abbiamo un allenatore esperto, Marcelo Bielsa, che ha saputo continuare il lavoro di Passarella, e abbiamo fior di giocatori, tutti già in grado di confrontarsi con il calcio europeo: alcuni arriveranno presto, o almeno li vedo già pronti per fare grandi cose anche in Italia”.
Qualche nome?
“I nomi si conoscono bene. Sono quelli che fanno tutti gli operatori di mercato. Non c’è partita del torneo argentino dove non siano presenti osservatori europei, italiani in particolare. Ci sono i due del River Plate, Pablo Aimar, fantasista tecnico e veloce, e Javier Saviola, un attaccante esterno svelto come un gatto, e poi i due campioni del mondo del Boca, Juan Riquelme, altro trequartista, ma diverso da Aimar, perché è più un regista alla Veron, e Martin Palermo, bomber vero che non ha bisogno di presentazioni: è lui che ha fatto i due gol con cui il Boca ha battuto il Real Madrid a Tokio (2-1,ndr), e mi pare che basti questo come biglietto da visita. Adesso si dice un gran bene di Leandro Romagnoli, ha 19 anni, gioca nel San Lorenzo e promette di diventare un attaccante formidabile. I più richiesti sono questi, ma l’Argentina è piena di buoni giocatori”.
Zanetti calciatore, come e perché?
“Perché mi piaceva tantissimo giocare e mi hanno sempre incoraggiato a farlo. Ho avuto allenatori che mi hanno insegnato tanto, come Oscar Lopez Cavallero e Norberto D’Angelo, poi naturalmente Passarella in nazionale. Ma a darmi forza è sempre stata la famiglia, con mio fratello Sergio: è più vecchio di me di sei anni, e gioca difensore nel Racing. La mia prima tifosa è mamma Violeta che, appena sono arrivato all’Inter, è corsa subito in Italia per starmi vicino: sai, avevo appena 21 anni e non era facile ambientarsi. Io sono molto legato alla famiglia, che adesso comprende anche Simba, il mio cane, un labrador che mi ha regalato Roby Baggio, e soprattutto mia moglie Paula: lei è fantastica, perché è sempre sorridente e, anche quando le cose mi girano un po’ male, come di questi tempi, riesce a farmi stare bene. Poi c’ è papà Rodolfo, con quel suo slogan che mi ha accompagnato fin da quando giocavo le prime partitelle da bambino: uno slogan che mi ripeto ogni volta che scendo in campo”.
Quale slogan?
“Suona così: ‘Ponga huevos hombre, que hoy tienes que ganar!’, sarebbe a dire ‘mettici le palle, ragazzo, che oggi devi vincere!’ Me lo ripeto sempre due o tre volte, prima di scendere in campo, e durante la partita. Mi dà la carica”.
Prima hai detto che ti gira un po’ male: vuoi spiegare?
“E’ semplice: so che quest’anno non sono ancora ai miei livelli. Lo vedo e lo so, non c’è mica bisogno che me lo dicano, me ne accorgo da solo e accetto le critiche. Il motivo è che, per la prima volta nella mia carriera, ho subito un brutto infortunio, l’estate scorsa, nella gara di qualificazione ai Mondiali con il Brasile. Da lì sono rimasto fermo tre mesi. Ho saltato tutta la preparazione d’inizio campionato ed è stata dura rientrare. In più ho ricominciato a giocare in un momento un po’ così per la squadra. Adesso va meglio, partita dopo partita, ma ci vuole ancora un po’ di tempo per rivedere il miglior Zanetti, perché non mi era mai capitato di fermarmi: e se vai a vedere i miei campionati con l’Inter, ti accorgi che ho giocato sempre quasi tutte le partite, subito dall’inizio della stagione. Quest’anno è tutto più difficile”.
Come per l’Inter?
“Per l’Inter sono altre le spiegazioni, anche se magari qualcuno non le troverà convincenti. Siamo partiti male e abbiamo continuato ancora peggio. Soffriamo da quando siamo usciti dalla Champions League: tutti vogliosi di tornare a fare la coppa più importante e, invece, eccoci fuori ancora prima di cominciare. Poi il campionato, con troppe sconfitte, il cambio di allenatore, la pressione dell’ambiente ai livelli di guardia. E poi i rapporti tesi con il pubblico, ma è chiaro che le responsabilità sono nostre, nessuno di noi si è mai sognato di dire il contrario o di trovare scuse. Quando si vivono queste situazioni, tocca al gruppo venirne fuori, come sempre. Spero anche nella Coppa Uefa: una l’ho già vinta e ho fatto anche il secondo gol alla Lazio a Parigi, una serata bellissima quel 6 maggio ’98! Ci terrei a fare il bis perché, se vinciamo la Uefa, la stagione torna positiva, almeno a livello europeo. In campionato invece è un’altra storia ma, fortunatamente, c’ è ancora tempo per risalire, almeno nelle posizioni che ci competono”.
Hai avuto otto allenatori: Bianchi, Suarez, Hodgson, Castellini, Simoni, Lucescu, Lippi e Tardelli. Con chi ti sei trovato meglio?
Sinceramente ho avuto un buon rapporto con tutti: però Bianchi, Castellini e Suarez li ho avuti solo per qualche partita. Comunque a livello di feeling ho legato soprattutto con Simoni e con Hodgson”. Con Hodgson, però, hai avuto anche momenti di grande tensione nella finale Uefa con lo Schalke a San Siro .
“Si, ma è stata una cosa di un minuto: c’era molto nervosismo quella sera (21 maggio ’97,ndr), ma abbiamo subito fatto pace, tant’ è che, due anni fa, quando è tornato in panchina, ci siamo riabbracciati e siamo subito andati d’accordo”. Torniamo all’Inter di oggi. Anche quest’anno, partenza con mille ambizioni subito ridimensionate dalla realtà: e ogni volta si torna sul mercato e si riparte da zero. Tu però fai eccezione, sei l’unico giocatore che è rimasto dall’avvento di Massimo Moratti. Si, e ne sono orgoglioso, così come sono fiero di portare la fascia di capitano dell’Inter. Forse il nostro problema è che facciamo fatica a ricominciare ogni volta daccapo, ma il nostro presidente non c’entra nulla. Siamo noi che dobbiamo dimostrare di poter restare a lungo nell’ Inter. Lui è un entusiasta, è il nostro primo tifoso ed è sempre pronto a fare tutto per l’Inter, perché soffre troppo quando le cose non vanno bene. Moratti è una persona straordinaria, unica: è il mio presidente da cinque anni, e guai se non ci fosse. Ma parliamo sempre delle stesse cose, e tocca a noi fare i fatti: dobbiamo farne tanti, presto e bene! Con Lippi non ci siamo riusciti ed è finita male, adesso dobbiamo dare una mano a Tardelli”.
Mai pensato di andartene dall’Inter?
“Sinceramente mai. Malgrado si dica che Real Madrid e Barcellona mi abbiano cercato più di una volta. Ho scelto sempre di rimanere e, finora, non mi sono mai pentito, perché ormai mi sento un po’ italiano. Vivo qui da quando ero un ragazzino. Prima Maslianico, oggi Cernobbio: casa mia ora è qui, non a Buenos Aires. Oggi è difficile restare a lungo in una squadra: ho avuto decine di compagni, ma sono sempre riuscito ad essere io ad accoglierli. Sono orgoglioso di essere l’ ‘anziano’ di casa Inter. Segno che me lo sono meritato e spero di non dovermene mai andare”.
Ti senti la bandiera dell’Inter?
“Sei anni nella stessa squadra e nell’Inter in particolare, con tutto quello che abbiamo detto, credo che vogliano dire qualcosa. Si sa, che non è facile rimanere nelle grandi squadre, perché nessuno ti regala niente e, se sono ancora qui , è perché me lo sono meritato. Con i tifosi ho un rapporto stupendo: è stato così da subito, una simpatia, vera, forte, ricambiata, ma tocca ad altri dire se sono la bandiera dell’Inter. Certo, guardando gli almanacchi, direi proprio di si!”
All’Inter è arrivato in punta di piedi nel giugno 1995 e non era solo. Primo acquisto del primo calciomercato dell’Inter di Moratti, subentrato da quattro mesi ad Ernesto Pellegrini nella presidenza, Javier Zanetti è l’unico degli oltre 80 giocatori acquistati a non aver ancora cambiato maglia. Allora però, Javier Zanetti non arrivò solo, perché sul volo Buenos Aires-Milano c’era un altro argentino, Sebastian Rambert, una delle tante meteore del nostro calcio, capace di bruciare talenti, veri e presunti, con incredibile voracità. La storia vuole che a segnalare Rambert e Zanetti a Moratti sia stato Antonio Valentin Angelillo, anche lui argentino, già capocannoniere-record della storia interista ed ex angelo dalla faccia sporca. Il duo, costato complessivamente una decina di miliardi, fu presentato la piovosa mattina del 5 giugno ’95 presso la prestigiosa Terrazza Martini, ad uno sguardo dal Duomo. A dir la verità, li si conosceva poco e, al primo impatto, forse per la naturale timidezza, sembrò Zanetti il comprimario, perché le maggiori attenzioni di stampa e tifosi toccarono allora a Rambert, attaccante che in Argentina si era guadagnato il soprannome di ‘Avioncito’, cioè aeroplanino, per il gesto, poi reso mitico da Ronaldo, di festeggiare i gol allargando le braccia come fossero ali d’aereo. Zanetti invece si portava un soprannome che non infiammava nessuno: lo chiamavano e lo chiamano ancor oggi, gli amici più stretti, ‘Pupi’. “Un nomignolo – ricorda Javier – che mi ha messo l’ ;allenatore del Talleres Oscar Lopez Cavallero, scelto per distinguermi dai tanti Javier che giocavano lì”. Sta di fatto che le strade dei due si separarono subito dopo le prime partite ufficiali, perché, mentre ‘Pupi’ sgroppava con autorità sulla fascia destra, ‘ Avioncito’, dopo sole quattro presenze ufficiali, dall’inquietante Inter-Lugano 0-1 di Coppa Uefa al dimenticato Fiorenzuola-Inter 1-2 di Coppa Italia, se ne tornò a casa senza mai aver provato la gioia del gol: da noi, infatti, l’aeroplanino lo ha fatto solo il giorno della presentazione, per le immagini di repertorio delle varie tv. E per gli amanti della rubrica ‘che fine hanno fatto?’ val la pena di ricordare che Sebastian Rambert è poi tornato a giocare in Argentina, dove vivacchia ancor oggi da normalissimo professionista, senza infamia e senza lode, nel River Plate.
Insomma il campione eri tu, non certo Rambert.
“Io ci speravo, ma forse sono stato solo più fortunato – attacca con l’esagerata modestia di sempre – Sebastian è comunque un buon giocatore, che non è riuscito a sfondare nell’Inter anche perché era reduce da un brutto infortunio al ginocchio. E in ogni caso giocare in Argentina non è mica una brutta cosa. Io sono partito subito forte e l’Inter penso di essermela guadagnata: mi ha sempre motivato moltissimo l’idea di giocare nel campionato più difficile del mondo”.
Il calcio argentino sta vivendo un grande momento, con il Boca Juniors campione del mondo.
“La Coppa Intercontinentale vinta dal Boca è un grande successo per noi argentini ma, si sa, il calcio più affascinante resta quello europeo, con la Liga spagnola e la Serie A in testa. Giocare in Europa è una cosa di enorme prestigio per tutti i calciatori stranieri, e noi argentini non facciamo differenza. Probabilmente senza Spagna e Italia, il grande Diego non sarebbe diventato Maradona”.
Il premio FIFA al calciatore del secolo l’avresti dato a lui?
“Assolutamente si, ma io non faccio testo. Maradona è stato il mio idolo. Per tutti i calciatori argentini da vent’anni a questa parte, il mito è Diego. Pelè purtroppo non l’ho visto se non in qualche filmato e, quindi, non posso giudicare con certezza. Una cosa però posso dirla e, naturalmente, è a favore di Maradona: lui si è confrontato con il calcio europeo, in Spagna e in Italia; a Pelè ;, invece, questa esperienza è sempre mancata. A livello di nazionale Pelè ha vinto di più ma mi dicono di nazionali brasiliane da leggenda. Dieguito, a dir la verità, ha stravinto un Mondiale in Messico con una squadra non eccezionale e ne ha perso un altro per un soffio, qui in Italia, quattro anni dopo. Ero bambino, ma queste cose me le ricordo bene. Non vorrei invece entrare nel merito di altre faccende che hanno interessato Maradona: tanti dicono che l’uomo Maradona non è stato al livello del campione, ma io giudico solo il campione, giudicare l’uomo non tocca a me. E come calciatore Diego è stato il più grande in assoluto. A chi ha dei dubbi, suggerisco di riguardare la videocassetta del gol all’ Inghilterra. In quel gol, con lui che saltava gli inglesi come birilli, c’ è tutto il calcio!”
In Argentina s’intravedono potenziali Maradona?
“No, lui è stato unico e unico resterà. Un talento del genere credo che non lo vedremo tanto presto, e non solo in Argentina. Però dalle mie parti ci sono sempre bravissimi calciatori, e squadre di grande livello: il Boca, per esempio, oltre all’Intercontinentale, ha vinto la Coppa Libertadores e attualmente detta legge a tutti gli altri clubs. Io però resto tifoso dell’Independiente. Poi, stiamo crescendo anche a livello di nazionale, e sono sicuro che ai prossimi mondiali la ‘ selecciòn’ sarà tra le candidate al titolo. Abbiamo un allenatore esperto, Marcelo Bielsa, che ha saputo continuare il lavoro di Passarella, e abbiamo fior di giocatori, tutti già in grado di confrontarsi con il calcio europeo: alcuni arriveranno presto, o almeno li vedo già pronti per fare grandi cose anche in Italia”.
Qualche nome?
“I nomi si conoscono bene. Sono quelli che fanno tutti gli operatori di mercato. Non c’è partita del torneo argentino dove non siano presenti osservatori europei, italiani in particolare. Ci sono i due del River Plate, Pablo Aimar, fantasista tecnico e veloce, e Javier Saviola, un attaccante esterno svelto come un gatto, e poi i due campioni del mondo del Boca, Juan Riquelme, altro trequartista, ma diverso da Aimar, perché è più un regista alla Veron, e Martin Palermo, bomber vero che non ha bisogno di presentazioni: è lui che ha fatto i due gol con cui il Boca ha battuto il Real Madrid a Tokio (2-1,ndr), e mi pare che basti questo come biglietto da visita. Adesso si dice un gran bene di Leandro Romagnoli, ha 19 anni, gioca nel San Lorenzo e promette di diventare un attaccante formidabile. I più richiesti sono questi, ma l’Argentina è piena di buoni giocatori”.
Zanetti calciatore, come e perché?
“Perché mi piaceva tantissimo giocare e mi hanno sempre incoraggiato a farlo. Ho avuto allenatori che mi hanno insegnato tanto, come Oscar Lopez Cavallero e Norberto D’Angelo, poi naturalmente Passarella in nazionale. Ma a darmi forza è sempre stata la famiglia, con mio fratello Sergio: è più vecchio di me di sei anni, e gioca difensore nel Racing. La mia prima tifosa è mamma Violeta che, appena sono arrivato all’Inter, è corsa subito in Italia per starmi vicino: sai, avevo appena 21 anni e non era facile ambientarsi. Io sono molto legato alla famiglia, che adesso comprende anche Simba, il mio cane, un labrador che mi ha regalato Roby Baggio, e soprattutto mia moglie Paula: lei è fantastica, perché è sempre sorridente e, anche quando le cose mi girano un po’ male, come di questi tempi, riesce a farmi stare bene. Poi c’ è papà Rodolfo, con quel suo slogan che mi ha accompagnato fin da quando giocavo le prime partitelle da bambino: uno slogan che mi ripeto ogni volta che scendo in campo”.
Quale slogan?
“Suona così: ‘Ponga huevos hombre, que hoy tienes que ganar!’, sarebbe a dire ‘mettici le palle, ragazzo, che oggi devi vincere!’ Me lo ripeto sempre due o tre volte, prima di scendere in campo, e durante la partita. Mi dà la carica”.
Prima hai detto che ti gira un po’ male: vuoi spiegare?
“E’ semplice: so che quest’anno non sono ancora ai miei livelli. Lo vedo e lo so, non c’è mica bisogno che me lo dicano, me ne accorgo da solo e accetto le critiche. Il motivo è che, per la prima volta nella mia carriera, ho subito un brutto infortunio, l’estate scorsa, nella gara di qualificazione ai Mondiali con il Brasile. Da lì sono rimasto fermo tre mesi. Ho saltato tutta la preparazione d’inizio campionato ed è stata dura rientrare. In più ho ricominciato a giocare in un momento un po’ così per la squadra. Adesso va meglio, partita dopo partita, ma ci vuole ancora un po’ di tempo per rivedere il miglior Zanetti, perché non mi era mai capitato di fermarmi: e se vai a vedere i miei campionati con l’Inter, ti accorgi che ho giocato sempre quasi tutte le partite, subito dall’inizio della stagione. Quest’anno è tutto più difficile”.
Come per l’Inter?
“Per l’Inter sono altre le spiegazioni, anche se magari qualcuno non le troverà convincenti. Siamo partiti male e abbiamo continuato ancora peggio. Soffriamo da quando siamo usciti dalla Champions League: tutti vogliosi di tornare a fare la coppa più importante e, invece, eccoci fuori ancora prima di cominciare. Poi il campionato, con troppe sconfitte, il cambio di allenatore, la pressione dell’ambiente ai livelli di guardia. E poi i rapporti tesi con il pubblico, ma è chiaro che le responsabilità sono nostre, nessuno di noi si è mai sognato di dire il contrario o di trovare scuse. Quando si vivono queste situazioni, tocca al gruppo venirne fuori, come sempre. Spero anche nella Coppa Uefa: una l’ho già vinta e ho fatto anche il secondo gol alla Lazio a Parigi, una serata bellissima quel 6 maggio ’98! Ci terrei a fare il bis perché, se vinciamo la Uefa, la stagione torna positiva, almeno a livello europeo. In campionato invece è un’altra storia ma, fortunatamente, c’ è ancora tempo per risalire, almeno nelle posizioni che ci competono”.
Hai avuto otto allenatori: Bianchi, Suarez, Hodgson, Castellini, Simoni, Lucescu, Lippi e Tardelli. Con chi ti sei trovato meglio?
Sinceramente ho avuto un buon rapporto con tutti: però Bianchi, Castellini e Suarez li ho avuti solo per qualche partita. Comunque a livello di feeling ho legato soprattutto con Simoni e con Hodgson”. Con Hodgson, però, hai avuto anche momenti di grande tensione nella finale Uefa con lo Schalke a San Siro .
“Si, ma è stata una cosa di un minuto: c’era molto nervosismo quella sera (21 maggio ’97,ndr), ma abbiamo subito fatto pace, tant’ è che, due anni fa, quando è tornato in panchina, ci siamo riabbracciati e siamo subito andati d’accordo”. Torniamo all’Inter di oggi. Anche quest’anno, partenza con mille ambizioni subito ridimensionate dalla realtà: e ogni volta si torna sul mercato e si riparte da zero. Tu però fai eccezione, sei l’unico giocatore che è rimasto dall’avvento di Massimo Moratti. Si, e ne sono orgoglioso, così come sono fiero di portare la fascia di capitano dell’Inter. Forse il nostro problema è che facciamo fatica a ricominciare ogni volta daccapo, ma il nostro presidente non c’entra nulla. Siamo noi che dobbiamo dimostrare di poter restare a lungo nell’ Inter. Lui è un entusiasta, è il nostro primo tifoso ed è sempre pronto a fare tutto per l’Inter, perché soffre troppo quando le cose non vanno bene. Moratti è una persona straordinaria, unica: è il mio presidente da cinque anni, e guai se non ci fosse. Ma parliamo sempre delle stesse cose, e tocca a noi fare i fatti: dobbiamo farne tanti, presto e bene! Con Lippi non ci siamo riusciti ed è finita male, adesso dobbiamo dare una mano a Tardelli”.
Mai pensato di andartene dall’Inter?
“Sinceramente mai. Malgrado si dica che Real Madrid e Barcellona mi abbiano cercato più di una volta. Ho scelto sempre di rimanere e, finora, non mi sono mai pentito, perché ormai mi sento un po’ italiano. Vivo qui da quando ero un ragazzino. Prima Maslianico, oggi Cernobbio: casa mia ora è qui, non a Buenos Aires. Oggi è difficile restare a lungo in una squadra: ho avuto decine di compagni, ma sono sempre riuscito ad essere io ad accoglierli. Sono orgoglioso di essere l’ ‘anziano’ di casa Inter. Segno che me lo sono meritato e spero di non dovermene mai andare”.
Ti senti la bandiera dell’Inter?
“Sei anni nella stessa squadra e nell’Inter in particolare, con tutto quello che abbiamo detto, credo che vogliano dire qualcosa. Si sa, che non è facile rimanere nelle grandi squadre, perché nessuno ti regala niente e, se sono ancora qui , è perché me lo sono meritato. Con i tifosi ho un rapporto stupendo: è stato così da subito, una simpatia, vera, forte, ricambiata, ma tocca ad altri dire se sono la bandiera dell’Inter. Certo, guardando gli almanacchi, direi proprio di si!”