Brocchi, il cuore viola
Ogni squadra che si rispetti ha un’anima. E la Fiorentina di oggi ha una grande anima, grazie ad un eccellente allenatore, Claudio Cesare Prandelli, e a un gruppo di giocatori in cerca di rivincite o di conferme. Tra i protagonisti del nuovo ‘miracolo viola’ c’è Cristian Brocchi, proveniente dalla panchina del Milan con la voglia di ricominciare da zero. Scommessa vinta. Nel suo caso, il destino non è scritto sulla carta d’identità: «sul mio cognome» – ammette rassegnato – «sento battute da sempre. Avessi fatto un altro mestiere, nessuno c’avrebbe fatto caso. Da calciatore invece, sai quante battute…»
Meglio scherzarci sopra.
«Ed è quello che ho fatto. Quando sbirciavo le T-shirt dei miei colleghi sotto la maglia ufficiale con scritte di ogni tipo, mi è venuta l’idea. Sulla mia ho fatto scrivere ‘Brocchi si nasce, campioni si diventa’. La prima volta a Verona furono tutti colpiti e la mostrarono subito in Tv. Così, ogni tanto la indosso ancora. L’avevo anche nel primo Euroderby di Champions League, una grande partita in cui sono sceso in campo dal primo minuto, insomma una rarità, almeno prima di arrivare a Firenze».
Già, quanta panchina ha fatto Brocchi?
«Tanta. Forse pure troppa. E non fa mai piacere, altro che balle. Pure se hai davanti grandi campioni, come è successo per quattro anni al Milan, arriva il momento in cui non ce la fai più. E quando capisci che non hai più stimoli, devi cambiare aria, rimetterti in gioco. Anzi, avrei dovuto farlo prima!»
Cosa ti ha fermato?
«Un errore di valutazione. L’anno in cui il Milan ha vinto la Champions League ho esitato. In Europa avevo giocato alcune buone partite e pensavo che da lì in avanti avrei avuto più spazio. Mi sbagliavo. Ancelotti non ha cambiato le sue scelte, rispettabilissime, e io ho fatto le mie. Altrimenti sarei rimasto a vita il classico jolly generoso, tutto cuore e polmoni, da buttare dentro solo quando qualcun altro finiva la benzina. Meglio tagliare la corda!»
Ed ecco Firenze…
«Una città che entra nel sangue e non solo per il calcio. Io avevo un motivo in più per venirci, oltre alla possibilità di giocare».
Prandelli!
«Esatto. L’allenatore che ho conosciuto a Verona, che mi ha portato e lanciato in serie A, il migliore con cui ho lavorato. Il tecnico, lo sanno anche i sassi, è preparatissimo e insegna il calcio come pochi, ma io voglio sottolineare l’uomo. Gravi problemi familiari l’hanno costretto ad un anno lontano dal calcio ed è mancato a tutto l’ambiente. Prandelli è splendido nel dialogo con le persone. Non è facile quando si smette di essere calciatori e si diventa allenatori riuscire a comunicare con lo spogliatoio come se si fosse ancora in campo. Io vedo che Prandelli è sopra di noi, ma sa essere uno di noi. Chi fa calcio capisce cosa voglio dire. Se tra una squadra e il suo allenatore si aggancia un filo robusto, poi è difficile che le cose vadano male. Alla Fiorentina oggi ci sono le condizioni ideali per fare cose stupende. Poi c’è il campo, gli avversari e tutto il resto, ma il nostro è un gruppo d’acciaio. E intorno c’è Firenze, una città da sogno».
Detto da un milanese…
«A Milano sono nato, conservo le mie radici e alcune attività extracalcistiche, ma non sono mai riuscito a starci bene come a Firenze. Eppure ho giocato in tutte e due le squadre milanesi e non è poco per uno che si chiama Brocchi».
Già, c’è stata anche l’Inter per qualche mese.
«Brutto periodo. Dopo dieci anni di settore giovanile al Milan e tre stagioni importanti, tra il 1996 e il 1999, con un salto quadruplo dalla C2 alla serie A, è arrivata l’Inter. Ma non è stata una bella esperienza. Ho lasciato Verona per tornare a Milano nel giugno 2000, pieno d’entusiasmo perché sono cresciuto in una famiglia interista. Ma non ho nemmeno fatto tempo ad ambientarmi ed è stato l’inferno: subito l’eliminazione nel preliminare di Champions League con l’Helsingborg e l’addio a Lippi dopo appena una giornata di campionato. Da lì, con Tardelli, la stagione è stata tutta in salita, e ho avuto anche guai fisici piuttosto seri. Sinceramente non ho alcun ricordo piacevole, a parte una frase carina di Massimo Moratti. L’ho incontrato solo una volta in un anno. Appena sono arrivato, mi ha detto: “mi piacerebbe che tu diventassi il Gattuso del Milan”. Ma non è andata così. Prima sono stato fermo sei mesi per un’operazione di ernia al disco e, al rientro, è bastata una partita per essere massacrato di critiche e fischi. Nessuno mi ha difeso e mi sono ritrovato dimenticato in un angolo. Facevo fatica a capire: in fondo mi avevano pagato dei bei soldi ma evidentemente c’erano problemi più urgenti! Non ho alcuna nostalgia dell’Inter e non ci tornerei. Oggi non mi sento più interista e non mi piace che in squadra ci siano così tanti stranieri. Vedere l’Inter giocare quasi sempre senza nemmeno un italiano è un insulto ai tifosi interisti, agli italiani e al nostro calcio. In nessuna società si dà così importanza ai calciatori che vengono da fuori, ignorando quelli che sono cresciuti con l’Inter nel cuore. Nulla contro gli stranieri, ma c’è un limite. Quando sento altri ex parlare dell’Inter, mi chiedo perché questa società non riesca a tutelare i suoi investimenti. Si brucia tutto in un attimo. Così, al termine della stagione, dopo una serie di scambi tra le due milanesi, mi sono ritrovato al Milan».
Dove è andata un po’ meglio.
«In quattro anni di Milan sono riuscito a togliermi qualche soddisfazione. Con Ancelotti abbiamo vinto tanto: una Champions League, uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una Supercoppa Europea. E l’anno scorso, oltre a restare in corsa fino alla fine per lo scudetto, abbiamo perso la più incredibile finale di Champions della storia del calcio. Certo, io ero sempre lì a sperare in una maglia che non era quasi mai mia, ma non posso dire nulla di negativo sul Milan, perché lì non mi sono mai sentito abbandonato. A livello societario il Milan ha una marcia in più, un’organizzazione straordinaria e uomini altrettanto straordinari».
Insomma, Milan e Inter come il giorno e la notte.
«Per l’esperienza che ho avuto io è andata così. Non è mai bello fare confronti, ma al Milan è molto difficile trovarsi isolato. Se fai il furbo, i ‘vecchi’ dello spogliatoio ti vengono a prendere per le orecchie! Maldini non ha bisogno di alzare la voce o di litigare. Con lui basta uno sguardo per capirsi. Anche il Milan ha passato momenti duri, ma il carattere dei suoi campioni resta qualcosa di eccezionale. Ricordo quando siamo stati eliminati a sorpresa dalla Champions League dopo una sconfitta terribile, al Riazor di La Coruna con il Deportivo. Una mazzata, quattro gol a zero! Roba da stendere un toro, tant’è che anche in campionato ci davano tutti per spacciati. Invece la domenica dopo abbiamo battuto a San Siro l’Empoli e siamo andati avanti fino allo scudetto. Il Milan ogni tanto cade ma sa rialzarsi alla grande».
Eppure il tuo grande amico Vieri in rossonero stenta.
«Lui all’Inter ha dato tutto, poi è finita. Ora è nella miglior squadra possibile. Il tempo dirà chi ha avuto ragione, ma Bobo può far bene ovunque e il suo valore non si discute. In area resta tra i più forti del mondo, anche se ora fatica a trovare spazio. Riparliamone tra un po’. Se poi al Milan non dovesse trovarsi spero di incrociarlo ancora. In primavera quando mi chiedevano notizie sul suo futuro io proponevo Firenze. In realtà conoscevo la vicenda nei minimi dettagli e sapevo dell’interesse del Milan».
Cosa farà Brocchi da grande?
«Non faccio programmi a lunga scadenza, perché ho imparato sulla mia pelle che nel calcio può succedere tutto e il contrario di tutto. Meglio porsi obiettivi a breve termine, tipo arrivare più in alto possibile con la Fiorentina e restarci a lungo da protagonista. Il comprimario l’ho fatto abbastanza. Fuori dal campo invece so già cosa farò appena finisce la stagione: sposerò Evelyn, la mia compagna, proprio il lunedì successivo all’ultima domenica di campionato. Ho scelto questa data perché molti degli invitati sono colleghi che devono correre in Nazionale per i Mondiali. Io tiferò per loro, davanti alla Tv. Giocare almeno una partita con la maglia azzurra resta il mio sogno. Se mi fossi deciso prima a lasciare il Milan, avrei giocato di più e chissà…»
Chissà nonna Anna…
«Mia nonna è un personaggio incredibile. Sa tutto e non mi perde di vista un attimo. Lei e nonno Nando sono i miei primi tifosi. Seguono tutte le trasmissioni calcistiche e se per caso uno parla male di me è la fine: nonna Anna prende il telefono per intervenire in diretta e dire la sua. Ogni tanto mi chiamano per avvisarmi. Lei mica me lo dice. Le raccomando sempre di lasciar perdere perché qualche critica è normale, ma non c’è verso. L’ultima volta a Telelombardia ha seguito in diretta telefonica il gentiluomo che mi ha sputato addosso mentre ero a terra in Fiorentina-Livorno. Diceva di non aver nulla per cui chiedere scusa. Apriti cielo! La nonna ha preso subito in mano il telefono!»
A proposito, Vargas si è mai scusato?
«No, mai. Credevo che prima o poi l’avrebbe fatto, soprattutto dopo che si è salvato dalla squalifica per un cavillo procedurale, ma non è mai successo. Che devo fare? Me lo ripeto sempre che nel calcio succede di tutto. In fondo, io ne sono la prova vivente!»
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