Cambiasso tra Inter e Argentina
Pubblicato su Kicker China novembre 2005
Ci sono libri capaci di appassionare ad ogni pagina sfogliata. Ma ci sono anche calciatori capaci di migliorare sempre di più. Esteban Matias Cambiasso è uno di questi.
Argentino di Buenos Aires, 25 anni, oggi Cambiasso è un punto fermo dell’Inter di Roberto Mancini e della Nazionale di Josè Pekerman.
Chi lo allena ne elogia l’affidabilità e oggi Cambiasso si candida ad essere un protagonista assoluto dei prossimi Mondiali di Germania. Una carriera spesa tra il Sudamerica e l’Europa, dall’Argentinos Junior alle giovanili del Real Madrid, dall’Independiente al River Plate e poi ancora al Real Madrid in prima squadra, fino all’Inter nell’estate del 2004.
«Ho lasciato Madrid» – confessa Cambiasso – «senza particolari rimpianti. C’era troppa concorrenza a centrocampo e il mio desiderio era quello di tornare protagonista in una grande squadra. A Madrid ho vinto una Liga, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea e una Supercoppa spagnola, ma le belle storie finiscono. A volte si decide insieme che è meglio chiudere».
Il Real resta la più grande società del mondo.
«Nella considerazione di molta gente è certamente così ma, se guardiamo i risultati, negli ultimi anni c’è chi ha fatto meglio. E l’Inter è un club di grande prestigio internazionale».
Un club che ha fame di vittorie.
«All’Inter non si vince da tanto tempo e c’è un’atmosfera particolare. Conta sempre l’ultima settimana. Se vinci, hai vinto lo scudetto. Se perdi, hai perso tutto. In questa stagione, la seconda per me, ho notato un salto di qualità nella squadra e nell’ambiente rispetto all’anno scorso, difficile per tutti: un nuovo allenatore, Roberto Mancini, e tanti giocatori nuovi. Abbiamo dovuto conoscerci tra di noi e conoscere l’ambiente. Eppure, alla fine, siamo riusciti a vincere un trofeo come la Coppa Italia. E quest’anno abbiamo subito conquistato la Supercoppa contro la Juventus, che al momento è la miglior squadra del campionato italiano. Ma da qui a maggio è ancora lunga. C’è un progetto che cresce e una società vicinissima all’allenatore e ai giocatori. E per vincere è così che deve essere».
Cambiasso in Nazionale?
«Ho sempre avuto un bel rapporto con la Nazionale, fin da quando ero giovanissimo. Ho fatto parte di tre generazioni dell’Under 20 argentina. Sono stato due volte campione del Sudamerica e una campione del mondo, a Toulon in Francia, proprio con Pekerman, che ora allena la Nazionale maggiore.
Per la Selecciòn sono pronto a ricoprire un po’ tutti i ruoli del centrocampo: dal recuperador, cioè quello che deve rompere il gioco avversario e prendere tutti i palloni, come faccio nell’Inter, al trequartista, come è successo qualche volta in Nazionale, dove gioco più avanzato. Amo il mio Paese e appena posso ci torno, anche in vacanza. Rappresentarlo sul campo è un grande onore».
L’Argentina può vincere questo mondiale?
«L’Argentina è tra le squadre che alla vigilia si dice possano vincerlo, come il Brasile, la Germania, che gioca in casa, e l’Italia, anche se il pubblico italiano è sempre critico con la propria nazionale. Ma ci sono altre Nazionali che potrebbero mettersi in luce in questo Mondiale, come il Messico: non si può dire che vincerà, ma è forte e farà un ottimo Mondiale, ne sono certo».
Eppure al Mondiale vincono quasi sempre le stesse squadre.
«Di questi tempi parecchie grandi hanno una cosa in comune: è un momento di ricambio generazionale, con tanti giocatori importanti che stanno lasciando la Nazionale e tanti giovani che ci stanno arrivando. Da qui a giugno sarà decisivo indovinare i calciatori giusti. Ma il pronostico sul vincitore finale di un Mondiale è impossibile. Nella fase a gironi si può ipotizzare che due squadre possano precedere altre due, ma poi intervengono troppe variabili: alla fine il Mondiale si gioca in una manciata di partite e lo vince chi sta meglio in quel mese, chi conosce e alterna meglio i propri giocatori. Ho vissuto tre Mondiali giovanili ma, facendo le debite proporzioni, penso sia uguale: un mese di stress terrificante, dove non si pensa a nient’altro. Buona parte della competizione si gioca anche sui nervi».
Qual’è la forza dell’Argentina oggi?
«L’Argentina oggi è un buon gruppo. Certo, non ha un nuovo Maradona, ma giocatori che si conoscono dalle giovanili: gente che ha vinto le Olimpiadi e che è arrivata insieme in prima squadra. Pekerman era l’allenatore della mia squadra che ha vinto il Mondiale giovanile: il fatto che il gruppo sia affiatato potrebbe essere la nostra arma vincente».
Anche se gli argentini giocano in clubs sparsi per il mondo.
«E’ sempre stato così. Già vent’anni fa Carlos Biliardo diceva che allenare l’Argentina è difficile perché mentre Burruchaga passava il pallone in Francia, Maradona faceva gol a Napoli. Oggi è lo stesso, perché Riquelme crossa al Villareal, mentre Crespo fa gol a Londra, tanto per fare un esempio. Noi sappiamo che in Nazionale dobbiamo sfruttare al massimo il tempo a disposizione. In realtà è lo stesso un po’ per tutte le grandi Nazionali. Tanti di noi, che giocano in Europa, hanno in più l’inconveniente di due giorni di viaggio, ma anche Klinsmann e Lippi vorrebbero i loro giocatori per più tempo. Esattamente come Pekerman».
Perché l’Argentina non vince un Mondiale da vent’anni?
«Perché probabilmente c’è sempre stato qualcuno più forte o più fortunato. Poi credo che il dopo-Maradona in Argentina non sia stato facile, come il dopo-Pelè in Brasile. Anche loro sono stati senza vincere per un quarto di secolo».
Oggi il Brasile è di nuovo favorito?
«Ha vinto tutte e tre le ultime competizioni alle quali ha preso parte: Mondiale, Coppa America e Confederation Cup. Ha tante scelte in ogni ruolo e giovani straordinari che, rispetto ad altre squadre, si sono già inseriti alla grande, come Ronaldinho, Kaka o Adriano, mio compagno di squadra nell’Inter. In un torneo a lungo termine il Brasile è favorito, ma un Mondiale, come ho detto, si gioca in sette partite. E può succedere di tutto: basta la giornata storta di un campione o un’espulsione e la musica cambia. Senza contare che noi conosciamo il Brasile meglio di chiunque altro».
Già, Argentina-Brasile è una ‘classica’.
«La partita della vita per un argentino. Se chiedete ad un bambino di 6-7 anni qual è il suo sogno nel calcio vi risponderà: giocare contro il Brasile! E credo che sia lo stesso per i brasiliani. Tutte le altre squadre, quando incontrano il Brasile, hanno un timore reverenziale, ma per noi argentini affrontare il Brasile è normale. A volte vinciamo, altre volte perdiamo, ma buttiamo il cuore in campo perché Argentina-Brasile è il derby del mondo. Una partita così sentita non c’è da nessun’altra parte. In Europa Germania-Inghilterra o Italia-Francia, per esempio, non valgono Argentina-Brasile».
Solo nel ’58 una sudamericana, il Brasile, ha vinto in Europa.
«In effetti, nei Mondiali in Europa vince quasi sempre un’europea, ma so che a volte sono capitate cose strane alle squadre sudamericane. Nei quarti di finale di Inghilterra ‘66, ad esempio, risulta che in Germania-Uruguay c’era un arbitro inglese, mentre un tedesco dirigeva Argentina-Inghilterra. Guarda caso in finale sono arrivati inglesi e tedeschi».
Al di là del vincitore, che mondiale sarà?
«L’ultimo Mondiale non mi è piaciuto molto. Non ho visto grandi cose in Corea e in Giappone. Invece l’Europeo l’anno scorso è stato spettacolare. Ci sono state partite strepitose, come Repubblica Ceca-Olanda. Spero che per qualità il prossimo Mondiale assomigli più all’ultimo Europeo, anche se a volte è inevitabile che le tensioni nelle gare a eliminazione diretta possano diminuire lo spettacolo».
Un’ultima domanda: perché la chiamano ‘Cuchu’?
«E’ un soprannome che mi porto dietro da anni. Tranne mia moglie, ormai nel mondo mi chiamano tutti così, anche in campo. Era un personaggio della Tv argentina della mia infanzia. Non un cartone animato, come ha scritto qualcuno, ma un tipo in carne ed ossa, che faceva battute a ripetizione. Era magro e dicono mi somigliasse. Chissà che non ci sia presto un Cuchu campione del mondo».
Chi lo allena ne elogia l’affidabilità e oggi Cambiasso si candida ad essere un protagonista assoluto dei prossimi Mondiali di Germania. Una carriera spesa tra il Sudamerica e l’Europa, dall’Argentinos Junior alle giovanili del Real Madrid, dall’Independiente al River Plate e poi ancora al Real Madrid in prima squadra, fino all’Inter nell’estate del 2004.
«Ho lasciato Madrid» – confessa Cambiasso – «senza particolari rimpianti. C’era troppa concorrenza a centrocampo e il mio desiderio era quello di tornare protagonista in una grande squadra. A Madrid ho vinto una Liga, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea e una Supercoppa spagnola, ma le belle storie finiscono. A volte si decide insieme che è meglio chiudere».
Il Real resta la più grande società del mondo.
«Nella considerazione di molta gente è certamente così ma, se guardiamo i risultati, negli ultimi anni c’è chi ha fatto meglio. E l’Inter è un club di grande prestigio internazionale».
Un club che ha fame di vittorie.
«All’Inter non si vince da tanto tempo e c’è un’atmosfera particolare. Conta sempre l’ultima settimana. Se vinci, hai vinto lo scudetto. Se perdi, hai perso tutto. In questa stagione, la seconda per me, ho notato un salto di qualità nella squadra e nell’ambiente rispetto all’anno scorso, difficile per tutti: un nuovo allenatore, Roberto Mancini, e tanti giocatori nuovi. Abbiamo dovuto conoscerci tra di noi e conoscere l’ambiente. Eppure, alla fine, siamo riusciti a vincere un trofeo come la Coppa Italia. E quest’anno abbiamo subito conquistato la Supercoppa contro la Juventus, che al momento è la miglior squadra del campionato italiano. Ma da qui a maggio è ancora lunga. C’è un progetto che cresce e una società vicinissima all’allenatore e ai giocatori. E per vincere è così che deve essere».
Cambiasso in Nazionale?
«Ho sempre avuto un bel rapporto con la Nazionale, fin da quando ero giovanissimo. Ho fatto parte di tre generazioni dell’Under 20 argentina. Sono stato due volte campione del Sudamerica e una campione del mondo, a Toulon in Francia, proprio con Pekerman, che ora allena la Nazionale maggiore.
Per la Selecciòn sono pronto a ricoprire un po’ tutti i ruoli del centrocampo: dal recuperador, cioè quello che deve rompere il gioco avversario e prendere tutti i palloni, come faccio nell’Inter, al trequartista, come è successo qualche volta in Nazionale, dove gioco più avanzato. Amo il mio Paese e appena posso ci torno, anche in vacanza. Rappresentarlo sul campo è un grande onore».
L’Argentina può vincere questo mondiale?
«L’Argentina è tra le squadre che alla vigilia si dice possano vincerlo, come il Brasile, la Germania, che gioca in casa, e l’Italia, anche se il pubblico italiano è sempre critico con la propria nazionale. Ma ci sono altre Nazionali che potrebbero mettersi in luce in questo Mondiale, come il Messico: non si può dire che vincerà, ma è forte e farà un ottimo Mondiale, ne sono certo».
Eppure al Mondiale vincono quasi sempre le stesse squadre.
«Di questi tempi parecchie grandi hanno una cosa in comune: è un momento di ricambio generazionale, con tanti giocatori importanti che stanno lasciando la Nazionale e tanti giovani che ci stanno arrivando. Da qui a giugno sarà decisivo indovinare i calciatori giusti. Ma il pronostico sul vincitore finale di un Mondiale è impossibile. Nella fase a gironi si può ipotizzare che due squadre possano precedere altre due, ma poi intervengono troppe variabili: alla fine il Mondiale si gioca in una manciata di partite e lo vince chi sta meglio in quel mese, chi conosce e alterna meglio i propri giocatori. Ho vissuto tre Mondiali giovanili ma, facendo le debite proporzioni, penso sia uguale: un mese di stress terrificante, dove non si pensa a nient’altro. Buona parte della competizione si gioca anche sui nervi».
Qual’è la forza dell’Argentina oggi?
«L’Argentina oggi è un buon gruppo. Certo, non ha un nuovo Maradona, ma giocatori che si conoscono dalle giovanili: gente che ha vinto le Olimpiadi e che è arrivata insieme in prima squadra. Pekerman era l’allenatore della mia squadra che ha vinto il Mondiale giovanile: il fatto che il gruppo sia affiatato potrebbe essere la nostra arma vincente».
Anche se gli argentini giocano in clubs sparsi per il mondo.
«E’ sempre stato così. Già vent’anni fa Carlos Biliardo diceva che allenare l’Argentina è difficile perché mentre Burruchaga passava il pallone in Francia, Maradona faceva gol a Napoli. Oggi è lo stesso, perché Riquelme crossa al Villareal, mentre Crespo fa gol a Londra, tanto per fare un esempio. Noi sappiamo che in Nazionale dobbiamo sfruttare al massimo il tempo a disposizione. In realtà è lo stesso un po’ per tutte le grandi Nazionali. Tanti di noi, che giocano in Europa, hanno in più l’inconveniente di due giorni di viaggio, ma anche Klinsmann e Lippi vorrebbero i loro giocatori per più tempo. Esattamente come Pekerman».
Perché l’Argentina non vince un Mondiale da vent’anni?
«Perché probabilmente c’è sempre stato qualcuno più forte o più fortunato. Poi credo che il dopo-Maradona in Argentina non sia stato facile, come il dopo-Pelè in Brasile. Anche loro sono stati senza vincere per un quarto di secolo».
Oggi il Brasile è di nuovo favorito?
«Ha vinto tutte e tre le ultime competizioni alle quali ha preso parte: Mondiale, Coppa America e Confederation Cup. Ha tante scelte in ogni ruolo e giovani straordinari che, rispetto ad altre squadre, si sono già inseriti alla grande, come Ronaldinho, Kaka o Adriano, mio compagno di squadra nell’Inter. In un torneo a lungo termine il Brasile è favorito, ma un Mondiale, come ho detto, si gioca in sette partite. E può succedere di tutto: basta la giornata storta di un campione o un’espulsione e la musica cambia. Senza contare che noi conosciamo il Brasile meglio di chiunque altro».
Già, Argentina-Brasile è una ‘classica’.
«La partita della vita per un argentino. Se chiedete ad un bambino di 6-7 anni qual è il suo sogno nel calcio vi risponderà: giocare contro il Brasile! E credo che sia lo stesso per i brasiliani. Tutte le altre squadre, quando incontrano il Brasile, hanno un timore reverenziale, ma per noi argentini affrontare il Brasile è normale. A volte vinciamo, altre volte perdiamo, ma buttiamo il cuore in campo perché Argentina-Brasile è il derby del mondo. Una partita così sentita non c’è da nessun’altra parte. In Europa Germania-Inghilterra o Italia-Francia, per esempio, non valgono Argentina-Brasile».
Solo nel ’58 una sudamericana, il Brasile, ha vinto in Europa.
«In effetti, nei Mondiali in Europa vince quasi sempre un’europea, ma so che a volte sono capitate cose strane alle squadre sudamericane. Nei quarti di finale di Inghilterra ‘66, ad esempio, risulta che in Germania-Uruguay c’era un arbitro inglese, mentre un tedesco dirigeva Argentina-Inghilterra. Guarda caso in finale sono arrivati inglesi e tedeschi».
Al di là del vincitore, che mondiale sarà?
«L’ultimo Mondiale non mi è piaciuto molto. Non ho visto grandi cose in Corea e in Giappone. Invece l’Europeo l’anno scorso è stato spettacolare. Ci sono state partite strepitose, come Repubblica Ceca-Olanda. Spero che per qualità il prossimo Mondiale assomigli più all’ultimo Europeo, anche se a volte è inevitabile che le tensioni nelle gare a eliminazione diretta possano diminuire lo spettacolo».
Un’ultima domanda: perché la chiamano ‘Cuchu’?
«E’ un soprannome che mi porto dietro da anni. Tranne mia moglie, ormai nel mondo mi chiamano tutti così, anche in campo. Era un personaggio della Tv argentina della mia infanzia. Non un cartone animato, come ha scritto qualcuno, ma un tipo in carne ed ossa, che faceva battute a ripetizione. Era magro e dicono mi somigliasse. Chissà che non ci sia presto un Cuchu campione del mondo».
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