Green Border
di Agnieszka Holland
Immaginate di partire per la Bielorussia con la vostra famiglia dalla Siria, dall’Afghanistan o dal Congo, il viaggio aereo a carico del presidente bielorusso Lukashenko che vi ha fatto intendere che dal suo paese potrete raggiungere facilmente la Polonia e quindi l’Unione Europea. Immaginate poi di arrivare all’aeroporto, di essere caricati su un furgoncino i cui conducenti appena lasciata la città vi chiederanno brutalmente dei soldi per proseguire, una cifra spropositata, che pagherete. Immaginate infine di essere portati in una foresta, scaricati nei pressi di un filo spinato, che sarà poi sollevato così da passare dall’altra parte. Scoprite poi dal GPS del vostro cellulare di essere arrivati in Polonia. Vi abbracciate con gioia pensando di essere salvi. In realtà è solo l’inizio del vostro calvario. Dopo aver passato una notte al gelo immaginate che i militari di confine polacchi, dopo avervi un po’ rifocillati, vi accompagnino al filo spinato che è il confine e vi obblighino a passare dall’altra parte, nonostante le vostre suppliche. Se riuscite a immaginare tutto questo potete anche non vedere Green border. Il nuovo film di Agnieszka Holland è brutale e necessario, per il mondo e per noi europei che ci giriamo dall’altra parte e non facciamo nulla anche se potremmo. Lasciate al loro destino, nella terra di nessuno, al gelo e affamate, respinte dalla Bielorussia, dalla propaganda polacca che non le considera persone ma “pallottole” di Putin contro l’Unione Europea e di conseguenza dalla milizia polacca che considera i rifugiati “terroristi, pedofili, degenerati”. È un pugno nello stomaco che lascia il segno, e del verde del titolo rimane solo la sequenza iniziale, una foresta vista dall’alto: il resto del film è immerso in un bianco e nero livido e disperato, dal taglio fortemente documentaristico, la camera da presa è vicinissima ai profughi, li segue da vicino e ne mostra il dolore e l’angoscia di una situazione che dal 2021 continua ancora oggi. Narrato da vari punti di vista (la famiglia siriana, i militari, gli attivisti, la psicologa) il film è stato oggetto in Polonia di una violenta campagna di diffamazione da parte del partito al governo (poi sconfitto nelle elezioni dell’ottobre 2023). Per questo motivo il film non è stato candidato dalla Polonia all’Oscar per miglior film straniero, per nascondere una verità scomoda. E non basterebbe solo questo presupposto per vedere e far vedere questo film? Un film politico, schierato, perché come si fa a non prendere le parti di una persona che abbandona la città natale, la propria vita e lavoro (“cosa dovevo fare, dice una donna, aspettare che arrivassero i talebani?”) in cerca di una possibilità di vita migliore e che viene palleggiata e malmenata tra il filo spinato delle guardie di confine? Se un film non può cambiare le cose ha il dovere sacrosanto di mostrarle. Premio speciale della giuria al festival di Venezia 2023 e Premio del pubblico al Festival internazionale di Rotterdam. Da vedere. Al cinema.
Recensione del Conte Adriano Cavicchia Scalamonti, 8.2.2024